Fu pozzo, invece, fu cisterna, fu (abominio!) persino un immondezzaio.
Solo nel 1987 questo luogo magico, a tratti onirico, è stato aperto all’ammirazione dei turisti dopo secoli di noncuranza e di abbandono: fu dimenticato, infatti, poi riscoperto, nel 1545, dallo studioso Petrus Gyllius, poi ancora negletto fin quasi ai giorni nostri.
Per visitare la Basilica Cisterna si scende una viscida rampa di una quarantina di scale e gli occhi si abituano pian piano ad una oscurità temperata da un’illuminazione fantastica, che non contende spazio al buio, ma lo sublima.
Una selva di 336 colonne sorregge le ampie volte del luogo. Alla base c’è acqua, molta acqua, popolata da enormi carpe golose che contribuiscono al fascino sinistro del monumento.
Vederle così grandi e ricordare il periodo scellerato in cui qui si buttava di tutto, cadaveri compresi, non aiuta a considerarle solo pescioni ipernutriti, anche se mi rendo conto che suggestione e fantasia qui giocano davvero brutti scherzi.
L’insieme ha un che di lugubre e affascinante insieme.
Percorriamo le passerelle fra le acque, inoltrandoci all’interno, accompagnati dall’eco dei nostri passi.
La Basilica Cisterna, fatta costruire da Giustiniano nel 532 (ecco svelato il segreto del nome: Basilica qui è aggettivo e vuol dire imperiale), è il punto di arrivo di un lungo acquedotto che, dal Mar Nero, portava acqua al palazzo e a tutta Costantinopoli; in pratica è un po’ roba nostra, un’architettura tutta romana.
Eppure non si dimentica neppure un istante di essere in Oriente grazie ai capitelli strani, alle forme sinuose e irregolari di qualche colonna arabescante, ai basamenti di risulta.
Al termine della passerella, infatti, si ammirano alla base di un paio di colonne due enormi, bellissimi volti di Medusa, riadattati al luogo. E quelle teste finemente scolpite, l’una inclinata, l’altra addirittura rovesciata, pietrificano anche me in un lungo, irreale momento di assoluta felicità.
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