Sicuramente non avevo mai letto la storia nella lingua secentesca dell’autore (levigata, fra l’altro, dalla lezione di Ariosto e quindi sapida e duttile), ma conoscevo qualcuna delle astuzie di Bertoldo dai racconti antichi di nonna Rubina e di zia Maria.
E’stato per me un grandissimo divertimento immergermi nelle gesta ora risibili ora profonde del saggio Bertoldo e del suo stolto figliolo Bertoldino, visto secondo la lente deformante della madre, la sapida Marfolda, esempio di saggezza e vivacità muliebre davvero moderna.
Giulio Cesare Croce saccheggia per Le avventure di Bertoldo e Bertoldino l’aneddotica classica: su tutti spicca il modello comportamentale di Diogene il Cinico, col suo elogio della fonte d’acqua pura e delle mani a conca che sostituiscono degnamente il bicchiere e con il suo rapporto con l’autorità.
Le avventure di Bertoldo e Bertoldino sono composte con tecniche mnemoniche di origine epica. Ogni arguzia, ogni beffa, è raccontata due volte: quando accade e quando viene riferita ai sovrani con lungo strascico di risa.
Dal teatro classico, Giulio Cesare Croce mutua la sticomitia: spesso le conversazioni fra Alboino e i villani sono rapidi scambi di domande insidiose e risposte impertinenti, strutturate come proverbi, create per diventar sentenziose e, invero, trasformate spesso nei proverbi di oggi.
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