Oggi scrivo a caldo, forse perché voglio trattenere ancora con me Lucio e la sua splendida realtà, dimostrazione su carta che anche nei fallimenti, nelle sconfitte, finanche nella malattia, un uomo è un essere sognante, non un querulo lagnante.
Quando Fausto Brizzi ha scritto “Cento giorni di felicità” lo ha fatto a rischio zero. Da bravo sceneggiatore, da animale da palcoscenico, sapeva bene che il binomio “amore-morte”, o meglio la salsa agrodolce che ne consegue, ha sempre ben pagato nel mondo della letteratura.
Farò finta di non saperlo. Farò finta che quella di Lucio sia vita vera e ne parlerò come se distribuissi perle di saggezza. Lucio cancella l’agonia dalla sua vita. Quando una diagnosi diventa per lui sentenza di morte, china la testa e accetta. Accetta la morte, però, anzi la accelera prenotando una stanza a suo nome in un centro suicidi assistiti di Lugano, ma non quel bagaglio di sofferenza, astenia, apatia che spesso la accompagna. Vuole morire vivo e saprà farlo, grazie anche alla complice solidarietà di amici inossidabili (ad averne, di amici così dediti, non come i nostri, che si barcamenano come tutti fra i mille guai della vita) e di una famiglia amorevole.
A tergo, ci sono molti spunti felici. Ho adorato per esempio l’idea di un negozio di “chiacchiere”, in cui si può ottenere a poco prezzo l’intimità del calore umano. C’è un divano, c’è un fornello sempre acceso per il caffè, ci sono persone che si avvicendano in questo nido amniotico in cui trovare conforto e compagnia. Così, fra confidenze e giochi da tavola, il tempo riacquista il giusto valore.
Se fosse nella mia città ne sarei assidua frequentatrice, non perché il calore delle amiche non mi scaldi, ma perché il bisogno di affetto non può sottostare a orari, pianificazioni, accordi, ma scoppia così, in una mezzora vuota in cui sarebbe bello bussare ad una porta, non digitare un sms.