Invece se i benemeriti Antonio Pattuglia e Raffaele Di Loreto, amministratori di Borghi d’Abruzzo, non si fossero adoperati per organizzare una visita guidata sarebbero passati chissà quanti anni ancora prima che mi fosse possibile percorrerne qualche metro, in condizioni rese disagevoli dalla viscosità del terreno e dalla ripidità dei primi scalini.
Gli schiavi che li scavarono erano trentamila e lavoravano tutti insieme.
Ma vi immaginate se oggi, per fronteggiare la richiesta di frumento di una popolazione in espansione, Renzi o chi per lui decidesse di prosciugare il Lago di Garda? E, detto fatto, inviasse trentamila operai a scavare pozzi in cui far confluire le acque in eccesso senza disporre di tutti gli strumenti di computo e monitoraggio che oggi facilitano i lavori?
E la popolazione rivierasca si trovasse a dover nutrire questo contingente di persone?
No, non è neppure immaginabile oggi quel che ieri accadde.
Dove oggi c’è la piana più fertile d’Abruzzo, quel Fucino che fornisce patate a tutta la nazione, in passato c’era il terzo lago d’Italia, causa di inondazioni improvvise perché privo di un vero e proprio emissario, a non considerare alcuni inghiottitoi sotterranei che drenavano, però, molto lentamente le acque in eccesso.
Ridurre il lago significò far di necessità virtù.
Per una volta, l’archeologia non ci mostra i fasti della vittoria (ben poco abbiamo della naumachia messa in scena sulle acque del Fucino prima dello svuotamento), ma il peso dell’organizzazione.
Nei cunicoli di Claudio non scorse altra acqua che lacrime e sudore; erano strutture destinate alla areazione e allo sgombero dei materiali di risulta, ancillari al vero canale, detto Incile, che convogliava e convoglia ancora oggi le acque che furono del Fucino.
Ci mise sei secoli la natura a vincere l’ingegno dell’uomo: qualcosa si inceppò in epoca barbarica, nessuno ebbe il know out per ripristinare l’ardita opera ingegneristica romana e le acque tornarono a sommergere completamente il Fucino.
Quando il principe di Torlonia riprese in mano la situazione, nell’Ottocento, cercò una soluzione radicale: il lago doveva sparire completamente, perché in piena rivoluzione agraria le terre fertilissime sottostanti lo ingolosivano molto.
I cunicoli di Claudio non furono sufficienti; ci volle altra complessa soluzione, dettagliatamente spiegata nei pannelli del Parco dell’Incile, sempre ad Avezzano.
Non sarei assolutamente in grado di scendere nei dettagli: da oziosa girovaga qual sono, mi sono lasciata distrarre dall’architettura del parco, sovrastata da una Madonna in preghiera alta sette metri e dotata di una passerella sulla diga davvero insolita.
Ci tornerò in primavera, quando gli alberi ritroveranno le fronde e il prato si riempirà di fiori, ma penso che anche allora i cartelloni esplicativi non avranno molto appeal per me.
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