Ho ucciso il cane nero. (R. Gervaso e la depressione)

ho ucciso il cane nero

Roberto Gervaso è stato per anni il mio autore preferito.

Cinquanta libri ha scritto, cinquanta ne ho letti.

Sulla sua prosa polita ho sbozzato la mia, dall’ironia dei suoi aforismi ho imparato la vita.

Immaginate allora con che curiosità, di più, devozione, mi sono abbeverata alle pagine della sua autobiografia: “Ho ucciso il cane nero. Come ho sconfitto la depressione e riconquistato la vita”.

In realtà, più che di depressione si parla di donne, di cui Gervaso si bea di apparire collezionista seriale, in una maniera che è sembrata stucchevole addirittura a me, che sono la più bendisposta delle fan. All’insistito riferimento al sesso, che le superbe metafore coniate con cornucopia dall’autore rivivificano impudicamente, preferisco le pagine sull’affermazione professionale, dense di riferimenti ai giganti del passato che di lui furono antagonisti, alleati, sodali, amici.

Aneddoti gustosi, freddure memorabili, retroscena sconcertanti si sono offerti ai miei occhi avidi: Gervaso ha il merito di scolpire in pochi, memorabili tratti personalità famose ed avvenimenti significativi. Coprotagonista per almeno metà libro è Indro Montanelli, che lo scopre, lo introduce in ambiente giornalistico, lo avvicina alla fama e lo ripudia all’indomani dello scandalo su Licio Gelli e le logge massoniche.

Gervaso era un “grembiulino”, con in più il torto mediatico di aver introdotto nella società segreta Silvio Berlusconi. Nei fatti, che cosa comportava questa affiliazione? Niente di niente, giura Gervaso, che ci si era avvicinato per meglio documentarsi su Cagliostro, oggetto di una sua meravigliosa biografia. La strumentalizzazione che ne seguì ha avuto dei risvolti kafkiani: allontanato dagli amici, privato del lavoro, schernito e odiato per una colpa che nessuno avrebbe saputo qualificare né quantificare, lo scrittore cadde per la seconda volta nel baratro della depressione.

Ce n’era stata una prima, durante una permanenza all’estero, e ce ne sarà una terza in vecchiaia, che lo renderà ipocondriaco.

La descrizione che fa di quegli anni bui, senza entusiasmi, senza passioni, spesi fra lacrime e velleitari progetti di suicidio, di quelle notti insonni o snervate dagli incubi, delle tachicardie, delle crisi di panico, è più potente e coinvolgente del loro superamento, ottenuto tramite farmaci perché la guarigione passa per la chimica, nel riequilibrio di quei valori di serotonina che, caduti a picco, lo ammalarono di questa subdola, infida, invalidante malattia.

E dire che Gervaso ha superato un tumore alla prostata e un intervento al cuore. Ha conosciuto gli ospedali, sa cosa siano il dolore e l’astenia. Eppure, rispetto alla depressione, anche il suo calvario ospedaliero sembra una bazzecola.

Sebbene, mutuando la boutade da Vincenzo Cardarelli, egli si autodefinisca il più grande scrittore morente d’Italia, qui voglio riportare un inno all’amore, magistralmente scritto in lode della moglie Vittoria.

Solo sentimenti nobili, solo momenti felici nel mio blog.

Scocca una scintilla, si accende un fuoco, divampa un incendio che c’infiamma senza bruciarci, c’illumina senza abbagliarci, ci rigenera senza snaturarci, ci purifica senza estenuarci. Una felicità troppo grande per essere eterna e troppo intensa per non farci soffrire, anche soltanto per il timore che non possa durare. Una felicità che trascende le barriere di un universo senza confini, che sfida e sconfigge le asperità, aggira o demolisce ogni ostacolo. L’amore pungola i deboli e rende teneri i forti. L’amore non conosce incagli e, quando finisce, ci trascina con sé nell’abisso, che prende le forme della depressione, o in un arido limbo. L’amore ci rende più buoni e generosi finché ci sostiene. C’incattivisce o c’immeschinisce quando ci abbandona. L’amore non parla: sussurra; non dice: benedice; non suggerisce: ispira; non dà: dona; non ti tiene per mano: ti stringe fra le braccia. L’amore non è soltanto fusione di due anime, ma anche, soprattutto, comunione. Non fa miracoli perché è esso stesso un miracolo.

L’amore è egoismo a due, microcosmo che fascinosamente si espande, mutandosi in un macrocosmo tutto nostro. L’amore ci toglie ogni paura, c’infonde coraggio, disarma e rimuove i nostri dubbi, instillandoci dogmatiche certezze. L’amore è una malattia, guariti dalla quale si sta peggio. Una febbre salutare che non ci fiacca, ma ci ritempra, ci rende sicuri, invulnerabili, onnipotenti, materializzando utopie, svelando tesori che credevamo inesistenti”

Pubblicato da Benedetta Colella

Sono Benedetta, quarantenne aquilana innamorata del mondo. Per contatti e collaborazioni, potete scrivermi a benedettacolella(at)gmail.com