Non fu né il primo né l’ultimo in una selva di volumi che rivendicavano alla natura un ruolo di spicco, condannando le ipocrisie e le forzature della società.
Eppure Il richiamo della foresta travalica i secoli e si ripropone attualissimo e piacevolissimo alla lettura anche oggi.
Cani da slitta costretti a tragitti infernali non esistono più, ma la storia di Buck non è destinata a tramontare.
Rispetto agli altri cani letterari, Buck non è umanizzato.
Tutto in lui è istinto: di volta in volta agisce per paura, per rabbia, per entusiasmo e quegli stati d’animo non lasciano strascichi né intorpidiscono la sua personalità.
E non sono provocazioni esterne: come insegna la triste sorte del vecchio alce, ci sono vittime designate che, sole, placano l’istinto predatorio di Buck.
Nella foresta, sfrenandosi come lupo fra i lupi, farà un passo indietro nella linea evolutiva e un passo avanti nella ricerca della propria felicità.
Vivere senza pensarsi, ecco il segreto di Buck.
“Vi è un’estasi che segna la sommità della vita e oltre la quale la vita non può levarsi.
E il paradosso del’esistenza è tale che quest’estasi viene quando si è più vivi, e si presenta come un completo oblio di vivere.
Questa estasi, questa felice dimenticanza, aggredisce l’artista, lo trae fuori di sé avvolto di fiamma; aggredisce il soldato spingendolo folle nella lotta senza quartiere.
Ed ecco che aggredì Buck mentre guidava il branco e lanciava l’antico grido del lupo correndo dietro al cibo ancor vivo che fuggiva dinanzi a lui nel plenilunio“.
Ci vorranno gli orrori della prima guerra mondiale imminente per ricordare ai tanti Buck a due zampe, ebbri di distruzione, i vantaggi di una vita pacifica.
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