Lacci di Domenico Starnone (2/2015)

Lacci

Lacci si inserisce coerentemente nella poetica di Domenico Starnone, tesa ad indagare tutte quelle sovrastrutture che si credevano eterne e non sono sopravvissute alla tempesta del Sessantotto.

La famiglia, cuore pulsante delle nevrosi di ogni adulto, viene qui destrutturata ai minimi termini e Starnone riesce credibilmente a dar voce ai silenzi di un marito fedifrago, lucidità alle furie di una moglie tradita, spazio ai figli, vittime spesso mute delle faide familiari più violente.

Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie.

Con un incipit così, sfido chiunque ad abbandonare la lettura. Parla la moglie, abbandonata come nel più cinico dei copioni per una donna più luminosa, giovane, felice. Parla la moglie, che fu luminosa, giovane, felice, prima che la convivenza forzata con quel marito egoista le spegnesse giorno dopo giorno la voglia di vivere.

È una follia tutta femminile smaniare per riavere l’uomo di cui così lucidamente si notano i difetti e le mancanze, è possesso più che amore, è smania distruttiva, è gelosia, è dolore.

Ah, l’amore. Spegnete i violini, salutate Cupido. Lucidamente Vanda, la piccola, forte protagonista del romanzo, vi mostra nella sua banalità il sentimento più sopravvalutato del mondo: “ A ogni occasione, mi dicevo, potrei avere un amore: è come la pioggia, una goccia urta a caso contro un’altra goccia, si forma un rigagnolo. Basterebbe insistere nella curiosità iniziale, e la curiosità diventerebbe attrazione, l’attrazione crescerebbe fino a indurre al sesso, il sesso imporrebbe la ripetizione, la ripetizione fonderebbe una necessità e un’abitudine”.

Al marito non contesta l’essersi innamorato di un’altra, ma l’aver permesso al sentimento di nascere mentre sarebbe bastato non soddisfare la curiosità iniziale, quando era ancora embrionale. Tutta la prima parte è dedicata all’analisi femminile, sbalorditiva se si pensa che è stata un uomo a scriverla, ma tutto sommato ben attestata nel patrimonio narrativo contemporaneo.

Quella davvero stupefacente è la seconda parte, in cui è l’uomo, il marito, a dar voce ai suoi mutismi. Quante di noi sono abituate a infrangersi contro il muro di gomma costruito dagli uomini (temo, cioè, tutte le donne al mondo), che sanno parlare di tutto senza mai spiegare se stessi, tutti presi dai fatti e non dalle emozioni da cui sono scaturiti, sgraneranno gli occhi leggendo. Ecce homo, amiche. Ecco i ragionamenti, gli istinti, le (in)sicurezze maschili. Ecco i pensieri e i ripensamenti, la forza e la debolezza. “Lei è attivissima malgrado gli acciacchi, io sono pigro malgrado la buona salute” e va bene così. La pigrizia, parola magica.

Non sono pigri i figli, però, che da piccoli seguirono in silenzio la crisi familiare, imputandosi colpe che non c’erano, dandosi ruoli troppo grandi per la loro piccola età. Loro, i consolatori della mamma. Loro, piccoli seduttori del papà. Una volta cresciuti, sono pronti a riversare le proprie frustrazioni in un nuovo rapporto di coppia, viziato dalle stesse incomprensioni, dai medesimi problemi.

Ora è la figlia a parlare: “Dai nostri genitori,dico, ho imparato una cosa sola, che figli non bisogna farne […]Figuriamoci se mi mettevo a figliare urlando di dolore, se mi facevo squartare soto anestesia per poi svegliarmi con lo schifo di me, depressa, sopraffatta dal terrore di questi pupazzetti da cui non si può prescindere.Ah sì, vivere per loro, Li hai fatti -copia e incolla- e te li devi tenere, qualsiasi cosa succeda […]ci sono loro a ricordarti che non puoi, ci sono oro che hanno bisogno di te, piccole seerpi esasperanti con quel loro arroncigliarsi stretti, feroci.”

Queste analisi sono inserite in una trama di ferro, che presenta sorprese fino all’ultima pagina.

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Pubblicato da Benedetta Colella

Sono Benedetta, quarantenne aquilana innamorata del mondo. Per contatti e collaborazioni, potete scrivermi a benedettacolella(at)gmail.com