Non è il solito romanzo straniante in cui il mondo è visto “con gli occhi di un bambino”: c’è qualcosa di malsano, di morboso nel racconto che John Egan fa della sua esistenza, al punto che ad ogni pagina ti aspetti uno di quei colpi di scena pilotati (per esempio, la morte di qualcuno, una malattia, la scoperta della sessualità) che non arriva fin quasi alla fine.
Nel frattempo, leggi con disagio.
Sai che John Egan non può essere un narratore fededegno: Mr Roche, il maestro, non può davvero aver costretto la smorfiosa della classe (quella che lo prende in giro per un suo episodio di enuresi e che, facendo gli occhi dolci al suo amico Brandon, lo allontana da lui), a bere come un cane da una ciotola a terra, sequestrando un’intera classe perché assista alla disfatta della ragazzina che, dopo ore di immobilità, è costretta anche lei alla stessa umiliazione che rinfacciava al compagno. Mille altri esempi del genere generano una cortina di sospetti: il lettore percepisce chiaramente che c’è una irregolarità di fondo, ma non sa se attribuirla al padre disoccupato, alla madre borderline, alla nonna esasperata o al contesto degradato di una Dublino periferica descritta a tinte fosche.
Solo per l’altezza esagerata per un undicenne? Per quel buco sulla testa che prude e sanguina? Per il vizio di fissare gli altri per capire se mentono? Il suo è davvero un dono o una mistificazione?
Il romanzo non risolve nessuno di questi dubbi, ma, spingendo il lettore a porseli, gli insinua sottopelle una sensazione sgradevole che continua “inesplicabile, incomprensibile, inestirpabile, inesauribile, inesplorabile, inesprimibile, inestricabile, inestinguibile” e che, a ben vedere, è il fascino e insieme il limite di Il bambino che non sapeva mentire di M.J. Hyland
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