Non ci sono neanche per me stessa.
Il fenomeno è di difficile spiegazione.
Chi non ama leggere lo scambierà per follia: durante la lettura del primo racconto io ho deposto i miei panni tranquilli e sono stata mostro da prima pagina, vittima adescante, killer spietato.
Ho ritrovato l’intransigenza con cui a mio avviso va trattato un omicida solo dopo aver ultimato la lettura e non prima di essermi aggiornata su Internet sull’evoluzione delle indagini del celeberrimo caso di cronaca da cui De Giovanni prende le mossa per il potentissimo incipit.
Poi, per prendere le distanze dalla storia, ho acceso il computer fissando su pixel le mie emozioni. Ma subito “Nove volte per amore” mi ha richiamato ad una nuova immersione nelle pieghe dell’umano agire.
Questo processo di morte e resurrezione si è ripetuto ad ogni storia: il brivido nel riconoscere il caso reale che ha alimentato la fantasia di Maurizio De Giovanni, l’identificazione con vittime o carnefici, la catarsi purificatoria a fine lettura, pur con la dolente consapevolezza che per nove famiglie non ci sarà redenzione.
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