Negli anni eroici dell’università, quando alla smania di conoscere il mondo non corrispondevano i mezzi economici per farlo e l’assenza di macchina e stipendio ci inchiodava a L’Aquila, il lago di Piediluco era la nostra via di fuga.
La vacanza cominciava già sul treno, un lentissimo convoglio che in vent’anni non ha migliorato di un minuto i suoi tempi di percorrenza e che in quasi due ore ci portava da l’Aquila a Marmore.
E c’era sempre un punto, all’incirca dopo cinque kilometri di marcia, in cui mi arrendevo, mi ammutinavo, mi accasciavo a terra e sempre un lontano sciabordio di remi mi restituiva tutte le energie: il lago era vicino e di lì a qualche curva il verde intensissimo di una vegetazione rigogliosa si sarebbe specchiato fra acque tranquille. Piediluco era allora un borgo di pescatori, fatto di casette colorate e affacci vertiginosi sul lago.
Mentre sbocconcellavo il mio panino, sognavo di frequentare quelle pittoresche trattorie sul lungolago e con la fantasia mi vedevo già adulta, libera di raggiungere quel luogo così amato ogni volta che volevo.
Non sapevo che, con la maturità, alla mancanza di soldi si sarebbe semplicemente sostituita quella di tempo.
Dopo troppi anni solo ieri sono tornata sul Lago di Piediluco, in macchina, stavolta, e con l’indirizzo del ristorante più quotato su Tripadvisor fra i miei appunti.
Ero preparata ad una delusione: temevo che i mille posti bellissimi visitati in questi anni ridimensionassero ai miei occhi questo specchio d’acqua nascosto fra Umbria e Lazio e contemporaneamente paventavo che la recente promozione a “Uno dei borghi più belli d’Italia” avesse modificato la genuinità di un luogo povero e bello.
E invece il colpo di fulmine è scoccato ancora.
Il restyling del borgo è stato così superficiale da risultar quasi tenero: solo una ripavimentazione anticata davanti alla ripidissima scalinata della chiesa, un’orribile scultura contemporanea che mi sono rifiutata di fotografare e un parco attrezzato in riva al lago, raggiungibile da una passerella in legno sulle acque. Il resto è come era: scalinate ripide che salgono la collina, orti domestici a pelo d’acqua, palizzate e steccati a perimetrare le piccole proprietà, negozietti bui di beni essenziali, piccoli noleggi improvvisati di pedalò e canoe.
In alto, una rocca diruta, ormai parte del paesaggio, aggiunge una patina di antico ad un luogo che è senza tempo.
Le acque del lago di Piediluco, ora così tranquille, improvvisamente diventeranno fiume e si chiameranno Velino; subiranno una profonda accelerazione e si frangeranno fra mille scrosci nella vicina cascata delle Marmore. Anche loro sono una metafora della vita.
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