Lo so bene che l’etimologia non è questa, dato che la cittadina ha preso il nome dalla spelunca, la grotta di Tiberio che si apre al termine della lunga spiaggia dorata, ma il colore bianco delle case, le vecchie mura che la cingono come una conchiglia e l’assonanza del nome mi inviano suggestioni forti.
Sperlonga insegna che l’apparenza, certe volte, è sostanza.
Non si può prescindere, nel ricordo, dai balconi fioriti, dagli alberi profumati, dalle piazzette ospitali, gremite di tavolini e pullulanti di vita.
La posizione spettacolare a picco sul Tirreno è un regalo della natura, le stradine strette e le scalinate vertiginose tra cielo e mare sono dono della storia, ma l’ordine, l’organizzazione e l’armonia sono un cadeau che i cittadini si guadagnano ogni giorno.
Non immaginavo che Sperlonga fosse piccolissima: il corso, stretto fra abitazioni che si sviluppano in verticale, stanza su stanza, è lungo poche centinaia di metri, l’ampia piazza dove insistono il municipio e la chiesa di Santa Maria Assunta ha tutta l’aria di essere architettura di epoca fascista, i belvedere che mi hanno rubato il cuore sono di concezione moderna.
Percorrerla è un’esperienza olfattiva: l’odore della salsedine si mescola e si fonde con quello dei fiori che ingentiliscono il centro. Abili profumieri sono riusciti a catturarlo nell’Aqua di Sperlonga, vendute in un negozio minuscolo e odoroso da cui si esce deliziati. Le essenze lì provate perdurano piacevolmente sulla pelle: se non costassero un’enormità le eleggerei a profumo preferito.
La presenza del mare è talmente dirompente che è possibile snobbare i due laghi che si fronteggiano all’ingresso del borgo e che sarebbero centri di attrazione primaria in qualsiasi altra città. Qui addirittura non è possibile il periplo completo: le strade proseguono fin quando servono all’ultima serra (ce ne sono a centinaia), poi si interrompono come se il Lago Lungo o il Lago del Puoto non fossero lì a pochi metri, bellissimi e trascurati.
Proprio dal mare ricevo l’unica delusione della giornata.
Il bagno, infatti, il primo della stagione, è una prova di pazienza: per quanto mi inoltri l’acqua non cessa di lambire le caviglie, poi giunge al polpaccio e siccome dopo un centinaio di metri è ancora a metà coscia mi arrendo e, come se fossi nella vasca, sto in ammollo rinunciando a nuotare.
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