Al contrario, ho tratto dalla lettura del lungo racconto non solo quel divertimento intelligente che spesso traggo dai lavori di Antonio Manzini, ma anche diversi spunti di riflessione sulla gestione del successo e sui disagi procurati a chi scrive dall’imbarbarimento dell’editoria italiana.
Giorgio Volpe, il protagonista, ci è presentato nell’atto di siglare il suo ultimo libro.
“Due anni, sei mesi e tredici giorni, tanto era costato in termini di tempo. A questo si dovevano aggiungere l’ansia, la fatica, le notti insonni, i dolori alla cervicale, 862 pacchetti di sigarette, tre influenze, 30 rate di mutuo“.
“Come sto? si chiedeva. Felice? A pezzi? Frustrato? Comosso? Le emozioni si avvicendavano con la frequenza dei battiti cardiaci e tutte gli si adattavano al corpo come abiti cuciti da una mano di alta sartoria“.
Purtroppo la sua casa editrice non esiste più, risucchiata da una multinazionale senz’anima che mira alla divulgazione del prodotto librario previo progressivo abbassamento di livello.
Nulla si salva dalla frenesia iconoclasta della Sigma: “Guerra e pace” è ferocemente deprivata delle scene di guerra e sporcata dall’aggiunta di scene di sesso fini a se stesse, “I vicerè” viene tradotto in un italiano basico tutto infarcito di parolacce e volgarismi e gli autori più in voga sono costretti a terribili compromessi al ribasso perché il loro ruolo, ormai, è esclusivamente quello di firmare copie e presenziare eventi come rockstar.
Sull’orlo del precipizio, chiaramente, si trova oggi l’intero sistema editoriale. Il baratro è ancora lontano, ma, se non ci fermiamo in tempo per recuperare stile e qualità, presto ci ritroveremo “in fondo al barile”. Parola di Antonio Manzini!