Solo lì si percepisce, stridente, una dissonanza: nell’atrio sono infatti ostentati, grevi e sguaiati, calchi boccacceschi di troppo colore e nessun fascino, raffiguranti pitocchi abbrutiti dal vizio.
L’allegoria è di semplice decrittazione: dopo la biglietteria si ascende tramite una scalinata monumentale, al termine della quale, novella Beatrice, ci accoglie l’immagine della madre di Sgarbi, Rina Cavallini, che istillò nel giovane Vittorio l’amore del bello e lo rinfocolò accaparrandogli, attraverso aste agguerrite, quel patrimonio personale che oggi è in parte visitabile nella mostra Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi.
Sgarbi, esperto conoscitore d’arte, usa al meglio le tecniche museali più scaltrite e, attraverso intitolazioni accattivanti, giochi di luce sapienti e cornici adeguate, rende unico ciascuno dei suoi tesori.
C’è un quid impalpabile che rende intima questa esposizione: l’amore.
Sono in mostra reperti che Sgarbi accarezza con lo sguardo ogni giorno, indugiando ad ammirarne ogni singolo tratto, ogni pennellata.
E sembra che sia lì, vicino a noi, a sussurrarci all’orecchio i dettagli che rendono quella statua, quel quadro, quella pala d’altare degni di ammirazione.
Dall’audioguida la sua voce, che abbiamo imparato a conoscere nei toni spesso aggressivi, indignati, irati della polemica, ci trasmette, stavolta, emozione ed entusiasmo. Sta improvvisando, è chiaro, e questo conferisce foga e sincerità alle sue descrizioni, concise e significative.
Basta un particolare per rendere indimenticabile l’insieme.
Un esempio sui centocinquanta possibili: in “Il negromante“, che mi aveva colpito per l’espressione terrea del protagonista, avrei dovuto seguire la traiettoria dello sguardo. Solo così, in un angolo del quadro, avrei potuto notare gli artigli del diavolo pronti a ghermire chi tentò di profanare il mistero della morte.
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