Piccolo, trascurabile inconveniente: la valle era abitata. Sul tracciato del lago dimoravano infatti i contadini di Resia e Curon, piccoli borghi senza voce ma non senza anima.
Bastò mettere mano al portafogli e acquistare agli autoctoni case nuove (anzi, prefabbricati assolutamente inadatti ai rigori del clima) in una zona limitrofa. Blandendo chi accettava, minacciando chi si scherniva, la potente ditta Montecatini ottenne di spopolare i borghi senza neppure aspettare che una catastrofe naturale facesse da detonatore, come successe a Craco in Basilicata.
Nel luglio del 1950, le acque del lago di Curon furono unite a quelle del lago di Resia: le case e i terreni che sorgevano fra i due antichi bacini lacustri pian piano, inghiottiti dai flutti, scomparvero dallo skyline. Al loro posto, l’azzurro del neonato lago di Resia, il più grande della Val Venosta.
Resta smezzato, mutilato, l’antico campanile trecentesco della sommersa chiesa di Santa Caterina, che svettò altissimo sulle case del villaggio e che resiste ancora, finché almeno le acque, nonostante i restauri attenti, non ne mineranno le fondamenta.
Di ritorno dal Tirolo, il 25 aprile 2014 ci siamo fermati a lungo in questo lembo di Italia. Gli avvisi in tedesco, le alte cime e la pulizia maniacale ci ricordavano che eravamo in terra di confine e che l’arrivederci con la Mitteleuropa sarebbe durato a lungo.
In particolare io ero soggiogata dall’aspetto spettrale del luogo: suggestionata dalla sua storia, vedevo nelle rocce scabre, nell’acqua profonda e nel sentiero bianco costeggiante il lago il pallore e le lacrime di chi fu scacciato dalle sue terre.
E la bellezza di oggi, questa silente, lunare armonia, è il giusto guidrigildo della sofferenza che fu.
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