Un concerto all’aperto nel mese di novembre? Con Roppoppò tutto è possibile.
La sua musica, infatti, prende allo stomaco e scivola nelle gambe: ti ritrovi a tenere il ritmo con il piede, a battere il tempo con le mani, a canticchiare le sue canzoni.
Non è merito esclusivo della sua bella voce lirica né della gestualità irresistibile né del repertorio, ammiccante o commovente a seconda degli umori della platea, ma sempre arguto.
Il fatto è che Roppoppò, nei modi, nei tempi e negli strumenti che adotta, rievoca la tradizione avita e, vero cantore dell’oralità, ricorda ai nipoti i ritmi e i testi che estasiarono nonni, bisnonni, antenati che non conoscevano la nostra tecnologia, ma condividevano con noi emozioni e sentimenti.
Sono ritmi a cui la massificazione discografica ci ha disabituato, ma che sentiamo nostri in maniera ancestrale perché parlano di collettività, di terre, di amori e di dolori con i ritmi svelti della fisarmonica, con le note dell’organetto, con l’intensità dei tanti strumenti a fiato che i pastori costruivano con il legno per accompagnare i loro passi e dar voce ai battiti del loro cuore.
Quando i miei alunni del terzo anno impazziscono fra hapax e idiotismi omerici, faccio ascoltare loro la canzone da cui Franco Palumbo ha mutuato il suo nome: Roppoppò. Lì c’è un ritmo, per quanto anapestico e non dattilico come nell’epica, da mantenere a costo del sacrificio grammaticale: e quando Roppoppò parla di una Madonna che la grazia gli faciò non diverge molto dagli anonimi aedi che composero i poemi omerici adattando la lingua e la trama alle esigenze del metro. La cultura popolare, che Franco Palumbo riproduce nella sua ricerca musicale di straordinaria qualità, si nutre infatti di formule che fidelizzino gli uditori e identifichino i brani, di storie che insegnino la vita, di una lingua duttile e autorigenerante, che faccia del ritmo la sua unica grammatica.
Questa fu la malia degli aedi, questa è la magia di Roppoppò.
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