E’ un “paese scapolo“, direbbe Franco Arminio.
Non è ancora Molise, almeno geograficamente, ma le campagne spoglie che lo circondano sono già lontane dai clivi antropizzati del resto d’Abruzzo.
Lo anima, però, una comunità tenace e volitiva, gelosa custode del patrimonio avito e di tradizioni popolari che hanno attraversato i secoli.
Qui, ad esempio, si produce la ventricina, che aggiunge pepe alle mollezze del maiale.
Qui si balla la spallata, danza di corteggiamento muscolare, un po’ sbruffona un po’ scontrosa, che la dice lunga sul carattere forte della gente del posto.
Mura solide, con sassi a vista, suggerirebbero un’idea di protezione e chiusura, ma porte e finestre, poco distanziate, rendono il castello accogliente e fruibile.
E la bellissima torre del 1100, che sfugge in altezza alle fortificazioni tardomedievali che la imbrigliano e offre una vista a 360° sulla natura circostante, è referente oggettivo di questo rapporto dialettico fra tradizione e libertà che mi sembra la costante interpretativa di Palmoli.
Un panorama come quello che si gode dalla villa comunale spezza i confini e invita al sogno; le viuzze del borgo, così strette e ripide, raccomandano invece calma e concretezza.
Santa Maria delle Grazie, fulcro della devozione a Palmoli, è più in basso e serba un cuore baroccheggiante che l’austera facciata non lascerebbe intuire.
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