Paulo Coelho, che avevo letto con interesse in Il diavolo e la signorina Pryn, mi è tornato indigesto già con Veronika decide di morire, un romanzo sulla volontà suicida inserito nella lista dei 1001 libri da leggere almeno una volta nella vita.
La Vilette, ambiguo casermone adibito ad ospedale psichiatrico, nasce dagli incubi ricorrenti di Paulo Coelho, che compare come personaggio marginale del libro appunto per ricordare che anche lui fu rinchiuso a forza in manicomio dai genitori, che avevano scambiato per sociopatia la genialità del figlio.
Io, lo ammetto, la penso come i signori Coelho e, se non la reclusione psichiatrica, almeno una massiccia cura farmacologica la consiglierei volentieri a Veronika e al suo autore, che ne è l’alter ego.
Se la storia fosse stata più lineare, se fosse stata meno ondivaga la linea di pensiero che dal dottor Igor porta alla protagonista, se Eduard fosse stato anche lui di Sarajevo e non avesse agito a Brasilia, tanto per aggiungere la questione urbanistica alle mille altre tematiche del libro, la narrazione sarebbe risultata più manualistica, certo, ma meno dispersiva.
Il seme della follia, infatti, è uno solo, ma fruttifica in centinaia di piante diverse. Si origina dall’esigenza di affermare se stessi e la propria unicità in un mondo che ci vorrebbe cloni dei modelli di comportamento socialmente accettati, ma si declina in manifestazioni sfrenate.
Per Paulo Coelho “la follia è l’incapacità di comunicare le tue idee.” “la normalità” ribadisce in un altro passo del libro” è solo una questione di consenso. Ossia, se molta gente pensa che una cosa sia giusta, quella cosa lo diventa“.
Veronika decide di morire è dunque un inno alla follia, intesa come diversità, che si ammanta anche di contenuti biblici: “è grave voler essere uguali, perché questo significa forzare la natura, significa andare contro le leggi di Dio che, in tutti i boschi e le foreste del mondo, non ha creato una sola foglia identica a un’altra.”
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