Aya Sofya in turco, in greco Aghia Sofia, che diventa in italiano Santa Sofia, ossia Sapienza Divina: una costruzione che sembra trasumanare.
L’architettura così complessa par concepita da mente divina e posta al centro di Istanbul da forze angeliche.
Nata nel VI secolo per glorificare Dio, è oggi un monumento all’ingegno umano, che ha saputo concepire, riadattare, destrutturare e ricomporre tanta bellezza.
Descriverla è una sfida che non so raccogliere.
Lo stupore ammirato che mi ha pervaso durante tutta la visita mi ha frastornato: poco o nulla ricordo della spiegazione. In quel momento, ero tutta nelle mie pupille: orecchie e, ahimè, cervello erano silenziati dalle emozioni forti scaturite dalla vista.
Le foto non aiutano, perché riproducono solo particolari, mentre è nel formidabile insieme che Aya Sofya si impone nella top ten delle bellezze artistiche che ho visitato nella mia vita.
L’imponente edificio fronteggia e sfida la Grande Moschea, costruita allo scopo di superare in maestosità Aya Sofya, che invece esce potenziata dal confronto.
La fila all’ingresso sarebbe scoraggiante, ma la nostra guida ha provveduto a munirsi di biglietti in
anticipo e in battibaleno siamo nel narcile interno, per l’invidia dei turisti fai-da-te. C’è un bar interno, i cui tavolini convivono con monumentali rovine e colonne mozzate spesso usate come sedili. Mi sembra l’allegoria perfetta di Istanbul, seduta sul suo passato glorioso, schizofrenicamente coeva di Giustiniano come di Obama.
Poi si entra e lo spazio, improvvisamente, si dilata.
Turbinano intorno alle nostre teste mosaici di straordinaria bellezza, sfuggiti alla furia iconoclasta musulmana per un miracolo profano dell’Arte. Le pareti sono dotate di forza centrifuga, paiono sfuggire nella vastità della sala: spiccano, fra i passati splendori, le istallazioni di un’artista turca che nell’Ottocento ha inserito grandi medaglioni neri con scritte calligrafiche arabe color oro.
In assenza di statue, è la architettura stessa a dar volume ad Aya Sofya: per intenderci, è come se dentro la Basilica di San Pietro fosse inserito il Colosseo.
Mi stupisce la ripidissima scala su cui si inerpicavano i portantini che avrebbero accompagnato il muezzin, steso come un pascià, a guidare la preghiera.
Mi colpiscono le grandi giare, dotate di una storia meravigliosa di lealtà e moderazione che solo la penna di un Erodoto redivivo potrebbe raccontare a dovere.
Aya Sofya è così: scrigno d’arte, contenitore di storie.
Usciamo malvolentieri, senza visitare le gallerie al primo piano, ma è in serbo per noi un’ultima sorpresa: uno specchio sul Portone Splendido, magnifico portale in bronzo del II a.C., riflette un mosaico sfavillante, che riproduce la Vergine col Bambino nell’atto di ricevere da Costantino la miniatura della città e da Giustiniano quella della sua chiesa.
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