Nella voluta rarefazione di ogni coordinata geografica, Rumiz ammanta di epicità il tragitto che lo ha portato fin lì, in uno straniamento a tratti allucinogeno.
Lo sostiene una prosa potente, in cui il lessico si fa ora preciso fino al dettaglio, ora sfuggente e metaforico, secondo le esigenze della narrazione.
Rumiz scrive innanzitutto per sè, per fermare su carta emozioni e immagini del suo insolito peregrinare (“i fogli del tuo taccuino -annota- sono troppo piccoli per l’enormità che ti circonda e troppo grandi per i tuoi miserabili pensieri“): ben presto “Il ciclope” si espande fino a comprendere tutti i fari del mondo, visitati in giornate epiche che si sovrappongono alla pace apparente, provvisoria, circospetta di cui si nutre nella sua isola segreta (i lettori che l’abbiano individuata, tra cui forse anche io, sono stati simpaticamente diffidati dal divulgarne nome e coordinate).
Il tempo si dilata, sull’Isola, perché la Rete, i Social, la follia della perenne connessione, lì non vampirizzano l’esistenza di Rumiz. I pensieri, di conseguenza, si gonfiano, acquistano consistenza e perdono ridondanza.
“La mente, affrancata dall’obbligo sociale di esprimere pensieri intelligenti, si riprende il diritto di erraare dove capita o sovrintendere alla piccola manutenzione animale: togliere gli ultimi granelli di sabbia tra le dita dei piedi, stiracchiarsi come i gatti, appoggiare la vecchia schiena contro una pietra scaldata dal sole“.
Fra le prime e le ultime pagine c’è uno iato stilistico: la parola si asciuga come osso di seppia, si fa evocativa, rarefatta, proprio mentre si impenna la qualità delle riflessioni, che tocca a mio avviso il punto più alto nella rievocazione commossa delle donne dei fari.
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