Non sorridevo più tre ore dopo, riemergendo turbata da un viaggio nell’orrore reso ancor più agghiacciante dall’asetticità dell’istallazione museale.
Non c’era nulla di quel che temevo: nessuna ironia sull’ipocrita rottura della Triplice Alleanza (normalizzata come esito di “conflitti irrisolti”) o sull’evidente impreparazione dei nostri soldati, che non seppero soverchiare le truppe austriache nonostante la schiacciante superiorità numerica.
Il museo della Grande Guerra di Kötschach-Mauthen ha un surplus che dovremmo esportare: una documentazione fotografica attenta e accurata, che mi ha chiarito punti oscuri e che ha dato nuova luce all’idea che già avevo della prima guerra mondiale.
Sappiamo tutti che si combattè fra i monti. Ma avete visto di che monti si tratta? Parliamo di cime rocciose di nessun valore strategico, da affrontare con cordate da alto alpinismo secondo i capricci di qualche grande ufficiale che, da Roma o da Vienna poco importa, trasmetteva dispacci con ordini perentori.
Come trascinare su quelle cime ancora prive di sentieri la pesante artiglieria che sembrava necessaria?
Lo sviluppo turistico che oggi arricchisce le Alpi pone le sue insanguinate radici nella sentieristica che oscuri soldati tracciarono per rendere possibili gli spostamenti militari.
Con dispendio ancora superiore fu scavata una rete di gallerie all’interno dei ghiacciai.
Poco male, quando venivano usate per velocizzare gli spostamenti; spesso, però, le gallerie, scavate sotto i quartier generali dei nemici venivano imbottite di esplosivo, sigillate e fatte saltare: un documento ci racconta lo strazio dei soldati austriaci, che ascoltavano la terra muoversi sotto di loro, intuivano le intenzioni cruente dei nemici, ma non potevano mettersi in salvo senza il permesso di lontanissimi generali.
Altra circostanza a cui le foto danno diversa dignità: faceva freddo. Freddo da morire. Nel 1917, sull’Ortles si toccarono i -38 gradi e ci fu un solo giorno in cui non venne rilevata una temperatura inferiore allo zero.
Gli austriaci avevano dei buoni cappotti. E i nostri? Chiedetelo al soldato austriaco che dormì in un sacco a pelo requisito a un italiano e che ci congelò letteralmente dentro.
Alla vita del fronte non mancava nessun tormento: pidocchi e pulci a stremare la pelle, tagliole già proibite in ambito venatorio perché troppo crudeli a straziare i piedi delle vittime, fame. Fa sorridere la lettera di un soldato austriaco, felicissimo perché gli italiani avevano ucciso un loro mulo permettendo così porzioni potenziate di goulasch.
Le ultime stanze delMuseo della Grande Guerra sono riservate a una ricostruzione accurata e accorata degli ambienti bellici, che paradossalmente mi ha rincuorato: quei manichini, per quanto di ottima fattura, non hanno sul viso il sudore e le rughe che per sempre hanno marchiato l’animo di troppi soldati.
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