Durante le lunghissime funzioni religiose della mia infanzia, non avevo un solo affresco su cui distrarmi e tutta quella pietra mi sembrava austera, triste, punitiva. Solo il bell’ambone sembrava calamitare la mia attenzione.
Non avevo tutti i torti, l’ho scoperto ieri durante il giroborghi.
L’assetto romanico attuale è un falso storico, infatti. San Pelino non è mai stata concepita come la Sovrintendenza d’Abruzzo, negli anni Settanta, la restaurò rimuovendo dettagli barocchi originali per ripristinare un romanico tarocco, ipotizzato più che effettivamente realizzato all’epoca in cui i terremoti fecero crollare a più riprese tetti e pareti.
Eppure, chiunque venga in Abruzzo per una settimana o per una vita intera non può fare a meno di visitare la Cattedrale di San Pelino, per i particolari entusiasmanti più che per il deludente insieme.
L’enclave, non piccola, della Cappella di Sant’Alessandro, ad esempio, è di quelle che regalano batticuori.
Guardi in alto e ti trove a contemplare un soffitto baroccheggiante fra i più belli d’Abruzzo (dobbiamo, però, a un restauro “creativo” questi colori così vivi), guardi in basso e, come in un museo in situ, trovi i resti delle antiche fondazioni e di tombe romane, guardi verso il bell’altare e ti imbatti in un reliquiario armoniosissimo.
Appartiene alla scuola del Bernini, non si scherza.
E siccome i corfiniesi, nonostante i loro sforzi, non riuscirono a raccogliere il denaro necessario ad aquistarlo, richiesero aiuto al papa in persona. Del resto, la pregevolissima urna era destinata a custodire i resti del quinto papa di Santa Romana Chiesa, Alessandro, omonimo del munifico Alessandro VII, che sborsò senza colpo ferire la differenza.
C’è poi un’altra cappella, vicino all’altare, separata con un vetro dal corpo della Cattedrale di San Pelino. La usano le suorine di clausura: mi sono sentita a disagio, ieri, mentre le spiavo pregare, immobili nel raccoglimento, contemplando, contemporaneamente il Crocifisso di Teofilo Patini, custodito appunto nella cappella delle monache.
Cristo è raffigurato con le sembianze di un agricoltore abruzzese, che il grande pittore immortalò nel momento della resa, dopo essere rimasto appeso ad una croce per due ore (senza chiodi, ovviamente, altrimenti più che realismo sarebbe stato sadismo).
Il Cristo contadino non piacque molto ai contemporanei, ma piace moltissimo a noi estimatori postumi del Patini.
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