È una lettura sempre piacevole, sia chiaro, che però, a tratti, si aggroviglia su se stessa. Il vortice sociale a ridosso del 1968 travolge Lenuccia e Lina, mettendo loro in bocca gli slogan triti e beceri di un comunismo affratellante solo nel nome.
I borghesi, infatti, non rischiando nulla in prima persona, sono più radicali e apocalittici degli operai, che cercano, invece, di salvaguardare il loro particulare; non sarà così per le due amiche, le quali prendono comunque atto di una differenza sociale che rintuzza l’invidia di Lina o almeno la netta percezione che ne ha Elena.
La presente assenza di Nino Sarratore, che cavalca l’onda comunista, è tanto evidente da convincermi che in lui sia adombrato Domenico (Nino?) Starnone (la stessa alternanza vocalica a-o-e, gli stessi suoni consonantici s-t-r), la cui produzione verte sui valori pervertiti e trasmutati dopo il Sessantotto.
E, siccome la diffidenza verso il sesso, sia esso l’algida maratona imposta da Pietro Airota o la gagliardia violenta degli uomini di rione, è descritta con una sensibilità totalmente femminile, sono sempre più propensa a identificare in Elena Ferrante la signora Starnone, Anita Raja.
Storia di chi fugge e di chi resta, dunque, ha paradossalmente un nucleo centrale ben aperto sul mondo, che si legge senza troppo trasporto, nella vana attesa che i personaggi della storia si inseriscano nel vasto panorama – così ben descritto. Solo quando però Elena Ferrante torna a focalizzare l’attenzione su Lenuccia e sulla sua vita da bacca rossa sopra il ramo-foglia del pungitopo gli occhi riprendono a correre sul foglio e ci si arpiona alla lettura, perché in fondo tutta la nostra vita è un po’ una Storia di chi fugge e di chi resta.
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