Il teatro India detiene il poco lusinghiero primato, difficilmente eguagliabile e certamente insuperabile, di essere il più brutto che abbia mai visto.
Ero partita priva di aspettative e senza nessuna pretesa: sapevo che l’edificio era nato come fabbrica della Mira Lanza e che, bonificato e restaurato, era stato convertito in teatro solo nel 1999.
Pertanto, non ho battuto ciglio quando, dopo aver parcheggiato nel buio di Via Luigi Pierantoni, siamo stati costretti ad attraversare un campo incolto per poi accorgersi che una bassa recinzione lo separava dall’ingresso.
Infine, a piedi, abbiamo guadagnato i cancelli con una passeggiata non esattamente piacevole nel traffico della periferia romana.
Il correttore ortografico di OpenOffice si ostina a correggere teatro con tetro: è un’ironia involontaria che ha molti punti di contatto con il vero. Attraversando i tristi capannoni grigi che ospitano le due sale del teatro India, commentavamo la brutta location quando una pubblicità, in alto, ha attratto la nostra attenzione: “il teatro è bellezza”.
Vi assicuro che all’India va inteso solo in senso metaforico.
Entrati finalmente all’ingresso e ritirato il ticket per lo spettacolo “Moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia“, è iniziato il dramma della toilette.
C’è? Non c’è?
C’è, ma distantissima. Abbiamo percorso lunghi corridoi ingrigiti dal tempo per arrivare in certi bagni spartani, ancora pieni di graffiti e scritte poco conformi ad un’utenza avvezza a frequentar teatri.
Ritornati nell’open space d’ingresso, ci siamo mescolati alla folla in piedi che, in assenza di posti numerati, si assiepava davanti alla porta chiusa della sala, cercando di conquistare una postazione piacevole. Ben presto, adocchiato un divanetto rosso che ha visto tempi migliori, mi sono ritirata dalla competizione, sperando che altri conquistassero un posto anche per me.
Finalmente la sala B si è offerta al nostro sguardo e la delusione si è acuita: una decina di file di sedie mobili, strette strette fra loro, e un palcoscenico di poco rialzato da terra.
Quando però le luci si sono spente e Ulderico Pesce è apparso all’orizzonte, l’aria si è rarefatta e, di fronte all’arte, ogni malumore si è spento.