Una scrittura chirurgica, assolutamente perfetta nei tempi e nelle parole della narrazione, dà voce a un disagio sinora inespresso in letteratura: l’imbarazzo di nonni disillusi dalla vita a contatto con nipotini ipertecnologici, saccentelli, egoriferiti e tuttavia disperatamente innocenti.
Daniele è un nonno assente, disabituato da una lunga vedovanza a convivere con altri, a suo agio in una zona di confort che gli si stringe intorno come una prigione.
Mario è un bambino di quattro anni ipersollecitato, dipendente dall’approvazione altrui, bisognoso di attenzioni costanti.
Sono due personalità contrapposte, strette l’una nello smantellamento delle illusioni di una vita (“Mi montò una smania di autodenigrazione. Vidi di colpo un vecchio senza qualità, forze scarse, passo incerto vista offuscata, suduri e gelo improvviso una svogliatezza crescente interrotta solo da sforzi fiacchi della volontà, entusiasmi finti, malinconie reali“), l’altra nella convinzione narcisistica di saper fare tutto, e tutto bene.
Nascosta nel miele delle parole di affetto e nelle simulazioni di entusiasmo reciproco si annida una sfida darwiniana di cui il lettore è spettatore, complice, giudice: “Battagliammo con l’io: io, io, io, così energico e tuttavia così simile a un pigolio flebile”.
Lo scherzetto è il cuscinetto che riduce gli attriti, addomestica un’aggressività insospettata e subito negata, segna il confine fra commedia e tragedia.
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