La trama si dipana fra presente, passato prossimo e passato remoto, si strania nel ricordo commosso del protagonista, si espande nell’attesa di una Tragedia subito annunciata e sempre differita.
In ballo c’è molto più di una storia d’azione: in queste pagine scorre, lento e solenne, il mito americano.
Marcus Goldman, il protagonista, incarna a pieno l’americano medio, che sa sognare e raccontarsi i sogni finché non diventano realtà.
Parlare di amore, lealtà, affetto fraterno, solidarietà, persino di perdono senza diventare stucchevoli è difficile; Joel Dicker, offrendo sfogo e voce alla parte migliore del nostro animo, sa narrarci una storia di valori forti, che evolve in epopea senza mai scivolare nell’agiografia.
Li ho amati tutti: Marcus e le fole della sua infanzia, Hillel e il suo ingegno inquieto, Woody e la sua forza disperata, zio Saul e il suo fragile equilibrio, zia Anita e la sua dolce bellezza, Alexandra e la sua caparbia personalità, persino il cane Duke, che, con le sue fughe e i suoi guaiti, dà al romanzo un tocco di leggerezza.
Proprio nelle ultime pagine di Il libro dei Baltimore, Marcus, personaggio emissario, esprime la sua poetica: “Perché scrivo? Perché i libri sono più forti della vita. Sono la più bella delle rivincite. Sono i testimoni dell’inviolabile muraglia della nostra mente, dell’inespugnabile fortezza della nostra memoria“.
Scrivi, Joel Dicker, scrivi: non smetterò mai di leggerti!
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