L’incipit della Lolita di Vladimir Nabokov, uno dei più belli di sempre, dà il la ad un potentissimo romanzo, che va centellinato per cogliere ogni sfumatura.
Lolita, che è la vittima, attraverso il filtro distorto dell’amore del protagonista si fa emblema dell’eterno femminino, sempre in trasformazione, sempre in divenire.
“Era entrata nel mio mondo, nell’umbratile e umorosa Humbertandia, con imprudente curiosità; lo aveva esplorato con un’alzata di spalle di divertito disgusto e ora mi sembrava pronta a lasciarlo, mossa da qualcosa di molto simile al puro e semplice ribrezzo“.
La lingua di Nabokov è pura musica: capita spesso che gli autori costretti ad abbandonare il proprio idioma (il russo, in questo caso) per un altro (l’inglese) elaborino originali moduli espressivi, che compendiano le peculiarità di entrambe le lingue e sono per questo irriproducibili e inimitabili.
Sui contenuti non mi esprimo.
Non voglio puntare i riflettori sullo scabroso tema della pedofilia, che mi ripugna fin nei precordi, ma non so fingere indifferenza spostando il discorso su altri argomenti pur interessanti, come ad esempio l’idea di America che ci è restituita dai viaggi senza meta di Lolita e del suo patrigno.
Del resto chi guarda al mondo con sguardo fosco, come Humbert, non sa vedere la bellezza nascosta delle piccole cose.
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